Una delle principali critiche che possono essere mosse alla tentazione, peraltro diffusa, di comparare acriticamente la situazione geopolitica odierna dell’Asia Centrale con il Grande Gioco combattuto principalmente durante il XIX secolo, può essere rinvenuta negli attori che vi prendono parte. Sebbene infatti far riferimento allo scontro diplomatico e di intelligence che contrapponeva l’Impero Russo e l’Impero Britannico possa costituire un efficace espediente per evidenziare l’esistenza di alcune continuità – la rilevanza dei fattori geopolitici, delle risorse naturali, il diffuso utilizzo del soft power, nonché l’esistenza di società multietniche ancora soggette al rischio di destabilizzazione – sono molte le differenze che rendono il Nuovo Grande Gioco più complesso.
Se si esclude lo spostamento del Grande Gioco verso est, avvenuto nei primi anni del XX secolo, che ha visto la partecipazione diretta dell’Impero Cinese nel tentativo di assicurarsi il controllo delle regioni confinanti allo Xinjiang, i principali attori del Grande Gioco ottocentesco furono l’Impero Russo e l’Impero Britannico. A partire dagli anni Novanta del XX secolo, invece, gli interessi coinvolti si sono moltiplicati e nuovi attori interni ed esterni all’area intervengono oggi a determinare gli equilibri della regione.
La scomparsa dell’Unione Sovietica ha reso indipendenti le cinque Repubbliche centroasiatiche le quali hanno sin da subito adottato politiche finalizzate a garantirsi maggiore stabilità, prosperità e prestigio in ambito internazionale. Accanto a Kazakhistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Tagikistan, ancora interessata alla regione, era ed è la Federazione Russa, la quale, sorella maggiore delle nuove Repubbliche, aveva perso il controllo diretto dell’area, mantenendo però ancora una forte influenza su di esse per merito dell’eredità istituzionale, economica e militare sovietica. In quegli anni il Regno Unito aveva ormai limitato il proprio coinvolgimento a livello globale, lasciando agli Stati Uniti, già da dopo la Prima Guerra Mondiale e l’indipendenza indiana, il compito di competere con Mosca per il controllo della regione.
Accanto quindi ai principali attori, Fed. Russa e Stati Uniti, furono altri Paesi a voler sfruttare le opportunità derivanti dal nuovo assetto politico dell’Asia Centrale e dal conseguente “vuoto” lasciato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica. Turchia, Iran, Unione Europea e Cina hanno adottato nel corso dell’ultimo ventennio diverse strategie per influenzare l’area, allo scopo di assicurarsi nuovi fornitori di materie prime, di diffondere valori democratici o di favorire la stabilità delle nuove repubbliche confinanti. Nel corso di più di un ventennio la competizione in Asia Centrale ha visto questi attori assumere ruoli diversi, più o meno significativi, ma comunque rilevanti per comprendere quale sia il contesto attuale, nonché per poter formulare delle ipotesi sulla sua prossima evoluzione.
Negli anni ’90, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la nascita di nuovi Stati turcofoni, si assistette ad una diffusione del Panturchismo, movimento tendente a promuovere l’unione culturale e politica fra tutti i popoli di lingua turca e fortemente legato all’ideologia turanica. Il Panturchismo trovava le sue radici alla fine del XIX secolo, quando era fortemente radicato tra le élite ottomane, soprattutto in chiave antizarista. Sopravvissuto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale, durante tutta la Guerra Fredda il Panturchismo ricevette scarsa attenzione anche in quello che fu un tempo il centro ispiratore del movimento: la Turchia; ma quando nel 1991 venne eletto Primo Ministro Süleyman Gündoğdu Demirel, il movimento tornò ad avere importanza. Si diffuse, infatti, all’interno dei quadri dirigenti la percezione che la promozione del processo di avvicinamento del mondo turco costituisse un interesse vitale per Ankara.
Contemporaneamente in Asia Centrale furono numerose le iniziative panturche. Nell’aprile del 1991 si era tenuto a Kazan un congresso di popoli turcofoni con l’obiettivo di rinnovare l’ideologia turanica; venne inoltre creato un fondo turco con lo scopo di aiutare lo sviluppo dei Paesi sorti dal disgregamento dell’URSS. Nel 1992 il Partito democratico kazako organizzò ad Almaty un conferenza che si tradusse in un appello affinché si lavorasse alla costituzione di uno Stato turco che comprendesse i territori tra Kazan e Almaty e venne costituito un Consiglio di Coordinamento a tal fine.
Le cinque repubbliche centroasiatiche avevano ereditato dall’URSS vecchie élite comuniste, le quali erano alla ricerca di una nuova ideologia che potesse sostituire quella comunista ormai screditata. Sebbene ancora fortemente legati per necessità o convinzione a Mosca, i dirigenti centroasiatici avevano iniziato sin da subito a muovere i primi passi per ridurne l’influenza e la dipendenza. In questo senso la Turchia poteva costituire un modello per questi Paesi ed un ponte verso l’occidente. Ankara poteva farsi promotrice di una forma di governo democratica e dell’ideologia kemalista che, oltre al profilo laico, nazionalista e paternalista, era ormai orientata ad un percorso di maggiore liberalizzazione anche in ambito economico, tutti aspetti che le élite centroasiatiche consideravano fondamentali per il rilancio dei propri Paesi. Un intervento sempre maggiore della Turchia era inoltre supportato dagli Stati Uniti che temevano che il vuoto di potere derivato dalla caduta dell’Unione Sovietica venisse colmato in Asia Centrale e nel Caucaso dal fondamentalismo islamista.
Tra il 1992 e il 2000 furono cinque i vertici della turcofonia nei quali Ankara ebbe un ruolo importante. Il primo vertice si tenne ad Ankara nell’ottobre del 1992, a parteciparvi furono i capi di stato di Turchia, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan, Azerbaigian; invitato inoltre al vertice era, data la presenza di una numerosa minoranza Uzbeka, il presidente del Tagikistan, il quale tuttavia non poté partecipare a causa del conflitto civile in atto quegli stessi anni. Nonostante il vertice si fosse aperto con i migliori auspici di tutti i sostenitori della causa panturca, la Dichiarazione di Ankara che ne seguì fu vaga. Essa si limitava a sottolineare la necessità di rafforzare i legami politici, economici e culturali tra i vari Paesi, ma non prevedeva un tracciato concreto per ottenere questo obiettivo, non vi furono riferimenti né alla costituzione di un mercato unico, né ad una banca turca, né all’istituzionalizzazione di una struttura sovranazionale che potesse coordinare i Paesi del mondo turco. Tuttavia venne stabilito che si sarebbero tenuti altri vertici e venne programmato che il prossimo si sarebbe tenuto a Baku nel gennaio 1994.
Il vertice di Baku non si tenne mai, ulteriore prova di come gli interessi e gli obiettivi di ciascuna delle repubbliche centroasiatiche e caucasiche non seguissero la stessa direzione. Tanto più che la questione del Nagorno-Karabakh rischiava di generare imbarazzi tra i vari capi di stato, tant’é che si optò per uno slittamento del vertice a ottobre dello stesso anno e ad un cambiamento di sede: Istanbul[1]. Nonostante i capi delle repubbliche ex-sovietiche fossero consapevoli di non dover esasperare i malcontento di Mosca, sospettosa nei confronti dei vertici, il secondo incontro della turcofonia ottenne migliori risultati, stabilendo incontri regolari. Inoltre, in quello stesso mese si riunì un nuovo Congresso dei popoli turcofoni il quale, al termine dei lavori, produsse diverse relazioni in cui venivano presentate delle proposte concrete in ambito sociale, economico, culturale, scientifico e di rapporti internazionali.
I successivi vertici si tennero nell’agosto del 1995 a Bishkek, nell’ottobre 1996 a Tashkent e ad Astana nel giugno del 1998. Questi tre incontri dimostrarono quanto fosse fragile il progresso di integrazione e numerose furono le criticità. Nonostante vi fossero vaghi riferimenti alla lotta al terrorismo e al traffico di droga, due questioni sulle quali tutte le repubbliche erano sensibili, non venne mai trovato un accordo sulla gestione e coordinazione della rete di gasdotti che costituivano un fondamentale tassello della strategia politica ed economica di questi Paesi. E nonostante a Tashkent fosse stata istituita una Segreteria permanente con il compito di applicare le decisioni prese durante i vertici, essa non si presentò mai nemmeno come l’embrione di una futura comunità politica. A decretare il fallimento dei vertici della turcofonia furono le defezioni durante il vertice di Baku dell’aprile del 2000 del Presidente turkmeno e del collega uzbeko.
Se i vertici della turcofonia avevano palesato l’impossibilità di Ankara di imporsi subito come un nuovo centro di aggregazione che potesse sostituire Mosca come baricentro politico, economico e militare per i Paesi dell’Asia Centrale, d’altro canto ne aveva confermato il ruolo di attore attivo nella regione; sebbene infatti le iniziative politiche nell’area fossero state di scarso successo, lo stesso non si può dire di quelle culturali.
Gli strumenti con i quali la Turchia ha potuto penetrare nell’area sono stati molteplici. In primo luogo l’organizzazione Turksoi, istituita nel 1992 e composta dai Ministri della Cultura di Turchia, Azerbaigian, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan. Essa ha il compito di rafforzare la cooperazione culturale e artistica tra i popoli turcofoni senza che vi siano ingerenze in ambito di politica interna ed estera.
In ambito linguistico uno dei principali obiettivi della politica turca in Asia Centrale è stato ottenere una maggiore omogeneizzazione delle diverse lingue turche e a tal fine furono mobilitati storici, letterati e linguisti. Di certo il maggior successo di queste politiche è stata la creazione di un alfabeto comune turco, la Turchia si è impegnata direttamente affinché l’uso di questo sistema, basato su 31 lettere latine, si diffondesse in tutta l’Asia Centrale, tanto da finanziare Paesi come il Turkmenistan e il Kirghizistan al fine di dotarli degli strumenti necessari alla transizione (manuali, macchine da scrivere, stampanti). Nonostante gli sforzi di Ankara tuttavia l’omogeneizzazione delle lingue turche, così come prevista dai linguisti turchi ideatori del nuovo alfabeto, è ancora lontana: molte sono ancora le discrepanze e Paesi come il Turkmenistan hanno sì adottato l’alfabeto latino, ma ignorato di fatto il modello suggerito dai linguisti turchi.
Un terzo ambito di azione della politica turca in Asia Centrale è stato il programma di formazione delle élite. Ankara ha aperto le proprie università agli studenti dell’Asia Centrale e promosso l’istituzione di centri di specializzazione che potessero colmare le lacune accademiche derivate dal periodo sovietico (materie economiche, inglese e turco). L’iniziativa ottenne da subito un largo successo e tra il 1996 e il 1997 ad iscriversi presso università turche furono circa 9500 studenti provenienti da tutta l’Asia Centrale[2].
Un quarto abito di azione è quello religioso. I dirigenti centroasiatici erano risoluti nel mantenere il principio di secolarizzazione dello stato, ereditato dall’epoca sovietica, e temendo il diffondersi del radicalismo, il modello di laicità proposto dalla repubblica turca costituiva chiaramente un valido punto di riferimento. Il principale strumento di espressione della politica estera turca in Asia Centrale in ambito religioso è la Direzione per gli Affari Religiosi, con i suoi auspici venne istituito il Consiglio Islamico d’Eurasia sotto suo diretto controllo amministrativo e finanziario. Un secondo strumento sono le grandi confraternite religiose di origine centroasiatica, le quali hanno sempre contato relazioni strette con le guide religiose turche. Nonostante questo tuttavia Ankara ha visto ultimamente frustrate le proprie ambizioni da iniziative di egemonia religiosa portate avanti dall’Azerbaigian in Caucaso e dall’Uzbekistan in Asia Centrale.
Un ultimo piano di azione della politica turca in Asia Centrale sono le telecomunicazione ed in particolare i media televisivi, si tratta di un ambito di azione che costituisce un supporto trasversale ad ogni altro fin qui esaminato. La Turchia, ancor prima della caduta dell’URSS, si era dimostrata interessata ad aumentare la propria presenza sui canali radiotelevisivi, tanto che negli anni novanta i canali satellitari turchi ottennero un audience di circa 57 milioni di spettatori[3] in Asia Centrale.
In definitiva, l’ambizioso tentativo turco di affermarsi e influenzare lo spazio turcofono ex-sovietico è fallito per una combinazione di fattori: la mancanza di mezzi economici e la concorrenza di stati finanziariamente più forti, la diffidenza delle repubbliche centroasiatiche, la debolezza delle infrastrutture di trasporto e la necessità di tener conto degli interessi di Mosca e Teheran.
Se per la Repubblica turca l’interesse verso l’Asia Centrale è soprattutto dovuto alla vicinanza linguistica e culturale con i popoli che la abitano, per l’Iran si tratta di motivi invece prettamente geografici, strategici, di sicurezza ed economico-commerciali. La principale preoccupazione di Teheran è il rischio di instabilità del vicino Afghanistan e di una possibile diffusione in tutta l’area. Negli anni Novanta al pari della Turchia, l’Iran si era proposto come modello politico di stato confessionale, tuttavia a Teheran fu chiara da subito la diffidenza nutrita dalle élite delle repubbliche ex-sovietiche ad un eventualità del genere, nonostante l’Iran avesse un certo appeal su talune realtà radicali.
Le iniziative iraniane si rivolsero quindi subito ad incrementare la cooperazione in ambito commerciale e di trasporto delle risorse energetiche. Considerando il fatto che nessuna delle repubbliche centroasiatiche possiede uno sbocco sul mare, l’Iran ha potuto giovarsi del vantaggio geopolitico di permettere ai Paesi produttori di gas e petrolio di raggiungere vie di esportazione marittime per le loro risorse. Degli importanti risultati sul piano politico ed economico vennero raggiunti prima con il Tagikistan e poi con Turkmenistan. Il primo, data la vicinanza culturale e linguistica, poteva essere maggiormente interessato all’ideologia rivoluzionaria; con il secondo la collaborazione fu più proficua basandosi principalmente su questioni energetiche, che portarono alla realizzazione del primo gasdotto che trasportava idrocarburi centroasiatici senza attraversare il territorio russo.
Il vero successo ottenuto da Teheran fu l’adesione di tutte e cinque le repubbliche centrasiatiche all’Organizzazione della Cooperazione Economica (OCE). L’OCE fu fondata nel 1985 da Iran, Pakistan e Turchia allo scopo di promuovere la cooperazione economica, tecnica e culturale tra i Paesi membri. Nel 1992 l’Organizzazione si allargò agli Stati dell’Asia Centrale e subì un importante processo di ristrutturazione affinché ne fossero rafforzati gli strumenti ed i poteri dato l’aumento dei partecipanti. Nel corso degli anni l’OCE si è fatta promotrice di numerose iniziative in ambito di sviluppo del commercio regionale, della cooperazione nel settore dell’energia, dei trasporti, dell’agricoltura e dell’industria. A determinare il peso specifico così rilevante di questa organizzazione è il fatto che essa sia la sola a riunire Stati tutti di confessione musulmana, ma non araba.
Di recente si sono registrate nuove mosse diplomatiche messi in atto da Teheran: in primo luogo l’Iran ha rilanciato la collaborazione ed il dialogo con il Turkmenistan, con il quale sono stati sottoscritti accordi per l’aumento delle esportazioni energetiche verso l’Iran e la costruzione di due linee ferroviarie che attraversino da Nord a Sud Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Iran, e una da Ovest a Est fino alla Cina lungo i territori di Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan. Altre consultazioni si sono soffermate sulla costruzione di nuovi gasdotti e oleodotti in Tagikistan.
Nonostante questi indubbi successi, l’Iran non è ancora uno degli attori determinanti della scacchiera centroasiatica, in parte perché non in grado di competere con le ingenti risorse finanziare e militari dei competitor “maggiori”: Russia, Stati Uniti e Cina; in parte perché Teheran stessa cova alcuni dubbi sull’opportunità di presentarsi forte del suo status di potenza regionale, dato che rischierebbe di precludersi il sostegno di Mosca e Pechino nel contesto del confronto diplomatico con Washington.
Nel 1991 l’Unione Europea si presentava come un attore marginale nella partita centroasiatica. L’Unione infatti non poteva vantare né legami culturali, né linguistici con le repubbliche ex-sovietiche, né vantaggi geopolitici. Questo, unito alla debolezza politica in confronto a Stati Uniti, Russia e Cina, nonché l’assenza di una strategia politica e dell’interesse degli stati membri di delineare una politica comune nei confronti dei Paesi dell’area, hanno limitato l’azione europea alle sole relazioni economico-commerciali. Le iniziative europee erano sostanzialmente incentrate a sfruttare la complementarietà dell’economie europee e delle repubbliche centroasiatiche; in particolare ad ottenere l’approvvigionamento di risorse energetiche di cui gli Stati della regione sono ricchi, promuovendo una collaborazione che permettesse un miglioramento delle condizioni di efficienza economica, tecnologia e infrastrutturale. Questo obiettivo di lungo periodo si combinava con la politica di promozione della democratizzazione e della tutela dei diritti umani nei Paesi della regione.
Negli anni ’90 i principali programmi di azione dell’Unione Europea erano il progetto TRACECA (Transport Corridor Europe Caucasus Asia) e il progetto INOGATE (Intestate Oil and Gas Transport to Europe). Inaugurato nel 1993 il TRACECA mira ad incrementare gli scambi tra Ovest ed Est (dal Mar Nero alla Cina) contribuendo ad un ammodernamento dei trasporti marittimi e terresti. Il progetto condizionava l’erogazione dei finanziamenti europei all’adeguamento dell’economie locali a quella di mercato. Il programma ottenne, nel 2001 una significativa accelerazione grazie alla sua istituzionalizzazione: venne creata la Commissione Intergovernativa con sede a Baku con il compito di ampliare e implementare il programma. INOGATE prese il via nel 1997, complementare al precedente, mirava a modernizzare il sistema di trasporto e commercializzazione di idrocarburi. Entrambi i progetti continuano ad occupare un ruolo di primo piano in Asia Centrale, così come dimostrato dalla conferenza regionale ministeriale per l’energia e il trasporto che si è tenuta a Baku nel 2004.
In Asia Centrale vi furono poi gli importanti interventi derivanti dall’istituzionalizzazione degli Accordi di Partenariato e Cooperazione con cui la Commissione Europea si proponeva di disciplinare i rapporti con i Paesi sorti dalla dissoluzione dell’URSS. Le materie interessate da questi accordi sono le più disparate e salvo quella militare e di sicurezza affrontano tutte le necessità delle repubbliche centroasiatiche. Nonostante questo per qualità e quantità gli Accordi di Partenariato e Cooperazione tradiscono ancora una volta l’incapacità europea di instaurare un solido dialogo politico, preferendone uno economico e commerciale. Kazakhstan e Kirghizistan furono le prime repubbliche a siglare un Accordo con Bruxelles: firmati nel 1995, furono ratificati dal Parlamento europeo nel 1996, per poi entrare in vigore nel 1999 con durata decennale. Nel 2003 si aprirono i negoziati con il Tagikistan, impediti prima dal conflitto civile, l’accordo che ne derivò è stato ratificato nel novembre 2008. Nel 1998 iniziarono le consultazioni per un accordo con il Turkmenistan, tuttavia i lavori vennero presto congelati a causa della politica autoritaria e repressiva del presidente Nyazov. Lo stesso trattamento si sarebbe potuto ipotizzare anche per l’Uzbekistan di Karimov, tuttavia interessi geostrategici spinsero le autorità europee a proseguire con la collaborazione: nel 1999 l’Uzbekistan decise di non rinnovare la propria adesione al Trattato di Tashkent (organizzazione nell’ambito della CSI) e di aderire alla GUAM organizzazione filoccidentale che riunisce Georgia, Ucraina, Armenia e Moldavia.
Un vero impulso non solo all’intensificazione dei legami con i Paesi dell’area, ma anche alla chiara intenzione di voler elaborare una strategia comune nei confronti dell’Asia Centrale, venne dalla nomina nel 2005 del Rappresentante Speciale per l’Unione Europea per l’Asia Centrale e all’elaborazione della Strategia Europea per la nuova partnership con l’Asia Centrale, che ha preso il via nel 2007.
Sul piano della sicurezza l’unica influenza proveniente dall’UE sulla regione deriva dall’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. L’ingresso delle ex-repubbliche sovietiche nell’OSCE seguì di poco l’indipendenza nazionale nel 1992, salvo il Turkestan le altre repubbliche accettarono di collaborare con l’organizzazione che intervenne direttamente a sostegno della delicata situazione tagica già nel 1994. Nel corso degli anni l’efficacia dell’OSCE in Asia Centrale ha presentato alcune criticità dovute principalmente alla cautela dei capi politici delle repubbliche ad abbandonare schemi di governo tendenzialmente autoritari, data la preoccupazione di una eventuale destabilizzazione; nonché alle difficoltà dei Paesi centroasiatici ad instaurare concreti processi di integrazione fra loro.
Se dal punto di vista politico e della sicurezza l’azione dell’Unione Europea è stata per certi versi poco efficace o incisiva, in ambito energetico essa si è fatta più assertiva e risoluta nel difendere i propri interessi in merito alla sicurezza energetica. La determinazione della strategia europea trova origine dalla crisi energetica del 2006 seguita allo scontro diplomatico tra Mosca e Kiev riguardo al prezzo del gas. Per garantire la sicurezza energetica ad un’Europa ormai allargata anche ai paesi dell’Est (2004), si progettò la realizzazione del’oleodotto Baku-Tiblisi-Ceyhan (BTC) e del gasdotto Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE) che avrebbero fornito l’Europa del gas e del petrolio estratti nel Caucaso e in Asia Centrale; a questi dovrebbe aggiungersi il Gasdotto Nabucco, che dalla Turchia attraverserebbe i Balcani.
Nonostante questo la strategia europea risulta indebolita dallo scarso peso politico di cui gode Bruxelles e vessata dallo scontrarsi dei propri interessi con quelli di taluni degli stessi stati membri. Numerosi sono stati le partnership e i progetti sottoscritti e realizzati in parallelo a quelli previsti dalla strategia di sicurezza energetica europea. Nel 2003 infatti entrò in funzione il gasdotto Blue Stream, frutto del partenariato tra Eni e Gazprom, più di recente il progetto South Stream si è posto in aperta competizione con il gasdotto Nabucco, così come il progetto NordStream nel Baltico.
L’Impero Celeste, come abbiamo visto, partecipò attivamente all’ultima fase del Grande Gioco, tanto da giungere ad organizzare un intervento militare nella primavera del 1880 con l’obiettivo di riprendere Kuldja ai russi[4]. Tuttavia dal cristallizzarsi della situazione in Asia Centrale dopo la Guerra Civile russa, la Cina non intervenne mai direttamente nell’area fino alla dissoluzione del blocco sovietico. A partire dal 1991 i principali interessi di Pechino in Asia Centrale sono l’approvvigionamento energetico e la questione della sicurezza[5].
La politica estera cinese in Asia Centrate ha seguito due vettori paralleli, uno concentrato sul rafforzamento dell’integrazione a livello dell’intera regione, il secondo di ordine bilaterale. Sul piano bipolare l’attenzione si è concentrata sul garantirsi l’accesso alle vaste risorse di petrolio e gas presenti in Asia Centrale. Ad oggi la Cina viene rifornita del gas turkmeno e del petrolio kazako dal Central Asia Gas Pipeline e dal Atyrau-Alashankou oil pipeline. Sul piano bipolare la Repubblica Popolare Cinese può vantare la sua vasta disponibilità di liquidità che spesso costituisce un forte appeal sulle repubbliche centroasiatiche, costantemente alla ricerca di capitali stranieri che ne facilitino lo sviluppo.
Dal punto di vista multilaterale la Cina sta puntando molto su una cooperazione regionale che, libera della presenza Statunitense, possa costituire un utile foro di dialogo con i principali attori della regione ed in particolare con le repubbliche ex-sovietiche e la Federazione Russa. Già dal 1996 la Cina, il Kazakistan, il Kirghizistan, il Tagikistan e la Russia entrarono a far parte del Shanghai Five Forum, organismo che si prefiggeva il compito di definire e smilitarizzare i confini degli Stati membri. Lo Shanghai Five Forum ha costituito il primo nucleo del processo di cooperazione che ha portato, il 14 giugno del 2001, alla costituzione dell’Organizzazione di Shangai per la Cooperazione (SCO), la quale si era fissata obiettivi di più ampio respiro: la lotta al terrorismo, al fondamentalismo e al separatismo, nonché l’incentivazione alla cooperazione politica ed economica.
Nel corso degli ultimi anni l’Organizzazione di Shanghai si è rivelata un importante attore dell’area, di recente tuttavia Mosca e Pechino hanno dimostrato di possedere due visioni differenti riguardo all’evoluzione del processo di integrazione di Shanghai: da un lato la Russia privilegia la cooperazione in ambito militare e di difesa, dall’altro la Cina vorrebbe invece promuovere la collaborazione economica e commerciale. Altro punto focale della strategia cinese in Asia Centrale è appunto quello di assicurare alle proprie merci uno sbocco sul vasto mercato asiatico e numerose sono state le iniziative a tale scopo. Dal 2000 l’interscambio commerciale tra Cina e le repubbliche ex-sovietiche è aumentato significativamente, grazie anche all’adozione da parte di Pechino della Go Global Strategy, che ha fortemente incentivato gli investimenti all’estero e le opportunità di business per le aziende cinesi.
Con il progressivo abbandono della presenza statunitense in Asia Centrale la Repubblica Popolare Cinese, forte della disponibilità di capitali e del peso geopolitico, si sta delineando come il secondo attore dell’area dopo la Federazione Russa, ciò non toglie che accanto a questi attori di primo piano ve ne siano altri, Turchia, Iran, ed Unione Europea, che tutt’ora attuano più o meno efficacemente le proprie strategie per assicurare che i propri interessi in quest’area, così geopoliticamente importante, siano garantiti.
La partita del Nuovo Grande Gioco si combatte quindi su più scacchiere: risorse energetiche, scambi commerciali, terrorismo, sicurezza, stabilità sociale e politica, religione e cultura. Gli attori che vi prendono parte sono numerosi e diversificati, alcuni hanno le risorse per agire su tutte le scacchiere, la Federazione Russa, gli Stati Uniti e forse nel prossimo futuro la Cina; altri solo per intervenire solo in alcune di esse, Iran, Turchia e Unione Europea. L’Asia Centrale si rivela quindi essere un sistema complesso nel quale molte sono le forze in gioco e le loro interrelazioni, ma a determinare quale sarà l’evoluzione di questa competizione sarà in ultimo l’agire degli attori interni dell’area, le strategie messe in campo dalle cinque repubbliche centrasiatiche e la loro abilità a saper sfruttare, con politiche multivettoriali, le opportunità e le sfide offerte dagli attori esterni.
[1] Venne inoltre stabilito che finché non si fosse riusciti ad organizzare incontri regolari, i vertici della turcofonia si sarebbero tenuti in Turchia, confermando ancora l’interesse di Ankara nel tentare di rafforzare il proprio peso nel processo di integrazione.
[2] Bayram Balci et Bertrand Buchwalter, La Turquie en Asie centrale: la conversion au réalisme (1991-2000), Dossiers de l’Institut Français d’Études Anatoliennes, n°5, janvier 2001, p. 33.
[3] Haluk Sahin, e Asu Aksoy, “Global media and cultural identity in Turkey”, Journal of Communication, primavera 1993 N. 43, 2, ABI/INFORM Global, p. 38.
[4] In realtà non vi fu uno scontro armato, quando i russi seppero che Pechino stava radunando un esercito optarono per restituire la città ai cinesi. Hopkirk P., The Great Game. On Secret Service in High Asia, Kodansha International, 1992. p. 455.
[5] Pechino è fortemente preoccupata dalla decisione statunitense di ritirare le truppe in Afghanistan nel 2014, dato il rischio che il radicalismo possa infettare anche la provincia cinese dello Xinjang, abitata da popolazioni di origine uigura di fede musulmana ed etnicamente vicini alle popolazioni dell’Asia Centrale, e mai del tutto esente da moti separatisti.